youngE(a)Rth con Squiseat

L'app che guarda allo spreco alimentare (e vi pone rimedio)

Per il terzo appuntamento della nostra rubrica YoungE(a)Rth, abbiamo intervistato i fondatori di Squiseat, una start-up nata da un’idea di quattro giovani informatici per porre rimedio allo spreco alimentare vendendo a metà prezzo i prodotti freschi e rimasti invenduti.

Perché quattro amici laureati in informatica decidono di di focalizzarsi sul tema dello spreco alimentare?

Uno di noi ha fatto il cameriere di catering per moltissimo tempo, anche durante l’università, riscontrando un problema fondamentale: durante i matrimoni, gli eventi, chili e chili di cibo buttati direttamente dalla pirofila del ristorante nel cestino. Terribile. Da neolaureati ci siamo iscritti allo Start-up Day dell’Unibo e abbiamo deciso di applicare le nostre competenze digitali per porre rimedio a questo problema. Abbiamo pensato: facciamo comprare i prodotti freschi e rimasti invenduti a metà prezzo a chi è interessato.

Come funziona Squiseat?

Non è niente di particolarmente nuovo, esistono già i food delivery. Ci siamo detti: facciamo una cosa simile ai servizi già esistenti, ma invece che con il menù fisso standard, con le eccedenze dei ristoranti. Abbiamo creato una piattaforma che riunisca l’offerta e la domanda: i consumatori finali vedono i prodotti, scelgono quello che vogliono e poi lo ritirano in negozio.
Il locale ha un’app, quando sa di avere dei prodotti in eccedenza - ma ancora freschi e adatti al consumo - decide di metterli su Squiseat e il cliente che è interessato lo può prenotare e andare a ritirare. È il classico esempio della brioche del giorno prima, che è effettivamente ancora buona e non da problemi di conservazione al livello organolettico, ma il cliente che la paga a prezzo pieno vuole quella fragrante. Venderla a chi è interessato, ma a metà prezzo, è un’occasione per non sprecare del cibo ancora commestibile. Se il locale decide di rendere pubblica l’offerta del cibo, il compratore li vede, li può comprare direttamente dall’app e il locale riceve l’ordine. Quando arriva il cliente comunica il numero d’ordine e gli viene consegnato il cibo. Il lavoro sull’app dedicata ai ristoratori è al completo, nei prossimi mesi lanceremo quella dedicata agli utenti che vogliono acquistarli.

Avete in mente un target a cui vi rivolgete? Sia per i ristoratori che per gli acquirenti.

Quando facevamo le consegne il target principale erano le famiglie con i figli fino ai tredici, quattordici anni. La gente voleva il prodotto a metà prezzo a casa, pronto e buono, senza faticare. Togliendo la consegna il target cambia e vai più sui lavoratori degli uffici e gli studenti. Famiglie e simili ci sono ancora, ma per riuscire ad raggiungerli bisogna essere più capillari. Per quanto riguarda l’offerta il target è più vasto: coloro che usano di più il nostro servizio sono le rosticcerie, le gastronomie e le pasticcerie. Il bar, forno e pizzeria arriveranno nei prossimi mesi, stiamo cercando di farli convergere verso il nostro modello adeguandoci alle necessità dei singoli. In generale più la persona che abbiamo davanti è vicina alla nostra età e più è facile far capire il progetto: i più anziani hanno qualche barriera digitale, e non solo. Un conto è parlare col giovane ristoratore che ha una visione più innovativa del tutto e parte digitalizzando già la sua proposta, un conto sono i ristoratori che lavorano a modo loro da decenni, se non di più, e che giustamente potrebbero mettersi a domandare: “chi siete voi per mettervi a questionare sul mio metodo?”. Va bene così, si fa un sorriso e si va avanti.

C’è una ricezione maggiore del problema dello spreco alimentare da parte di chi consuma il cibo attraverso Squiseat? Oppure c’è solo un interesse a mangiare bene spendendo meno?

Le due cose vanno a braccetto: esiste una nicchia di persone interessate al tema della sostenibilità, al punto tale che forse pagherebbero anche il prezzo intero del cibo pur di non buttarlo. Ma è una nicchia e non ci sopravvivi. I millennials sono più sensibili a queste tematiche, e lo si nota un po’ da come si comportano in tutti i campi: sui social, sulle pratiche di uso quotidiano, sugli ambiti di sviluppo “green” delle start-up innovative, per le quali se non hai un occhio verso questi temi sei già fuori dal mercato.

Quali sono gli ambiti che influenzate di più in termini di sostenibilità ambientale?

Sicuramente il tema del consumo di prodotti che altrimenti andrebbero buttati via è quello che salta più all’occhio. A questo si agganciano altri temi: nessuna produzione di CO2 per lo smaltimento del prodotto, risparmio dell’acqua ecc. Noi cerchiamo di puntare anche su temi qualitativi, oltre che quantitativi: la sensibilizzazione a lungo termine per noi è fondamentale, con il nostro lavoro vogliamo dimostrare che c’è gente che si impegna per la lotta allo spreco. Uno dei nostri sogni sarebbe quello di parlare con le amministrazioni per rivedere le leggi sul trattamento del food in Italia: siamo iper tutelanti del consumatore, e va bene, ma spesso si rischia di buttare una marea di prodotti perché il ristoratore piuttosto che rischiare ammende decide di buttare tutto. Ci piacerebbe poi che anche i più piccoli si rendessero conto del valore di acquistare cibo in modo sostenibile, avere un’eco a lungo termine in questo senso per noi sarebbe un sogno.

Voi avete iniziato con lo Start–up Day dell’UNIBO: come vi state trovando? Che tipo di supporto professionale vi ha fornito?

Lo Start-up Day è uno dei più grandi eventi sull’imprenditorialità giovanile. È molto ben fatto perché l’idea è quella di fare matching tra chi ha l’idea e chi ha la possibilità di dare un supporto per svilupparla. Arrivi con la tua idea e senza un team: lo Start-up Day fa matching creando dei tavoli comuni in cui si presenta l’idea e chi ha le competenze e l’interesse di svilupparla si aggiunge al team. È stato un modo per farci vedere, abbiamo trovato anche persone con cui abbiamo lavorato per un po’. Almacube (l’incubatore per le start up dell’Università di Bologna, ndr) poi ci ha offerto molti servizi e opportunità: il nome del nostro commercialista ce l’ha fornito Almacube. La parte di consulenza business ci è stata data proprio da Almacube, perché noi non avevamo idea di come mettere su una start up: l’incubatore fa proprio questo, stando dentro questo ambiente riesci a imparare moltissime competenze. La competenza hard non è prevista, non si tratta di un percorso di babysitting, ma il supporto è notevole. Se poi hai bisogno di una persona che si occupi, per esempio, di marketing, sei spronato a formarti tu per primo, e poi eventualmente riesci a trovare qualcuno che lo faccia per te al livello professionale. La prima cosa da investire è il proprio tempo, e lo si fa per formarsi - per quanto possibile - in tutti i settori necessari per farti andare avanti.

In che modo la vostra formazione universitaria ha influito sull’attività che avete messo in piedi? 

Solitamente quando si fa una start up c’è sempre un membro del team che fa economia, uno che fa marketing, uno di comunicazione. Quello che manca sempre è il programmatore. In questo caso è successo il contrario: eravamo quattro programmatori e ci mancavano tutte le altre professionalità. Noi siamo informatici puri, e le competenze accademiche che danno all’università sono relative e non sempre spendibili immediatamente in campo lavorativo. Usciti dall’università eravamo coscienti di non sapere sviluppare un’app: avevamo però la coscienza di avere delle competenze che, se approfondite, potevano dare ottimi risultati. Quindi all’inizio tutti facevamo tutto, ci confrontavamo e perdevamo un bel po’ di tempo. Arrivati a un certo punto ci si dà delle aree di competenza per ottimizzare l’impegno e la produttività di ciascuno: ognuno ha le proprie competenze, ma anche i propri interessi. A me piace parlare con le persone, per cui io tengo il rapporto con gli esterni, coi ristoratori. Lo stesso vale per tutti gli altri componenti del team: ci sono alcuni di noi che sono programmatori puri, altri che sono anche un po’ grafici e designer; per alcune competenze, come quelle di comunicazione, ci siamo rivolti ad altre persone che sanno fare questo lavoro. La forma mentis di ciascuno di noi è stata quindi fondamentale, il confronto resta fondamentale, ma da un certo punto in poi è importante andare un po’ svelti e prendere le decisioni per la propria area.

Per la prenotazione del cibo dai fornitori si utilizza Telegram. A breve però lancerete la vostra app ufficiale: come si è evoluto e come sta ancora cambiando questo vostro sistema nel tempo?

Siamo partiti con dei gruppi su Whatsapp con venti persone dentro. Scrivevamo lì che cibo ci era rimasto per la giornata e poi gli interessati si prenotavano. La cosa si è gonfiata col passaparola e a un certo punto su Whatsapp non ci stavamo più: era diventato delirante già su pochi numeri. Abbiamo provato Telegram perché lo conoscevamo bene e soprattutto perché ti permette di sviluppare dei BOT che automatizzano alcuni processi: quindi abbiamo creato un piccolo e-commerce, con scelta menù, selezione prodotto, pagamento, tutto dentro una chat Telegram. Questo ci ha permesso di automatizzare gli ordini senza impazzire a starci dietro di persona. Abbiamo scelto di non creare un’app sin da subito perché Telegram ha l’infrastruttura informatica già definita, bastava semplicemente programmare il BOT. Da qualche mese abbiamo trovato un investitore e si è deciso di comune accordo di passare alla nostra app. L’app dei ristoratori è già in funzione, quella per i clienti dovrebbe uscire entro la prima metà del 2021.