Zoom-In – Dentro le visioni di chi crea: Alberto Bof
Il nuovo format di interviste della redazione di Giovazoom che racconta i percorsi di chi ha trasformato la creatività in mestiere. Primo ospite il musicista Alberto Bof.

Zoom-In è il nuovo format di interviste targato Giovazoom che mette a fuoco le storie di chi, con passione e sacrificio, ha costruito il proprio percorso nel mondo dell’arte, della cultura e della creatività. Un viaggio attraverso esperienze vere, scelte coraggiose e visioni personali, per ispirare chi sta cercando la propria strada. Perché ogni futuro nasce da un’idea... e da chi ha il coraggio di seguirla.
Per la prima puntata di Zoom-In vi presentiamo la storia di Alberto Bof. Pianista, compositore e produttore di origine genovese, ma dall’animo cosmopolita, Bof lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti nel campo della musica per il cinema, per la televisione e per la pubblicità. Tra le sue collaborazioni più rilevanti troviamo A Star is Born, City of Lies, Chiara Ferragni - Unposted; compositore di musica elettronica e classica, Bof ha lavorato con leggende della musica americana come Joe Perry, Quincy Jones, Lukas e Willie Nelson, Paul Morris e altri. Ha inoltre collaborato con Nike, Vans, Red Bull, Monster Energy Drink per note campagne pubblicitarie.
Com’è nata la tua passione per la musica? Ci sono momenti chiave della tua infanzia che ti hanno segnato?
Ho iniziato a suonare a 3 anni, quando ero all’asilo con le suore. C’era un coro con 10 bambini, io mi sono messo vicino alla suora e le ho detto «quel bambino, quell’altro e quell’altro ancora sono stonati, non possono continuare a cantare». Allora la suora è andata a parlare con mia madre e le ha suggerito di mandarmi a lezione di musica, avevo evidentemente un orecchio particolarmente predisposto. Da lì ho iniziato a fare lezione di musica. Un altro momento chiave è stato quando ho iniziato a vedere i primi Superman e Guerre Stellari: la prima volta che ho sentito le colonne sonore di quei film ho capito che quello era quello che volevo fare, mi davano una sensazione di euforia che non avevo mai percepito.
Cosa ti ha spinto a iniziare così presto un percorso così rigoroso come quello del pianoforte classico?
In casa avevamo già uno strumento del genere: era una pianola che mia madre mi ha sempre raccontato essere sua, io non ho mai capito veramente, forse era semplicemente destino che io mi ci avvicinassi. A 3 o 4 anni già mettevo gli accordi giusti, quindi anche questo era un altro segnale importante della mia predisposizione.
Quali sono stati i momenti più importanti del tuo percorso di studi, sia in Italia che all’estero?
Ho iniziato lezioni di musica a 4 anni, a 11 anni ho iniziato il conservatorio. Poi mi hanno bocciato all’esame di conferma in seconda media, non mi ricordo neanche esattamente la ragione, mi ricordo solo che i professori litigavano furiosamente tra di loro e io ho deciso di passare a suonare il corno francese, prendendo il massimo dei voti peraltro. Ho fatto lezioni private in pianoforte e sono rientrato in conservatorio come studente di pianoforte in prima liceo. Ho fatto tutto il percorso fino alla maturità; poi a un esame del quinto superiore, il più difficile di tutti i 10 anni del percorso di diploma, mi chiesero dei brani estraendo a sorte dal gruppo dei clavicembalisti, sui quali io non ero stato preparato dal mio docente per una sua dimenticanza. Quando successe questa cosa, decisi di abbandonare il conservatorio e di specializzarmi in musica elettronica. Ho iniziato così a suonare con il computer, avevo 18 anni ed era il 1992.
Come hai integrato la tua formazione classica con la musica elettronica? È stato un passaggio naturale o ci hai dovuto lavorare un po’?
Quando eravamo piccoli e studiosi solo ed esclusivamente di musica classica, dicevamo peste e corna della musica elettronica. Poi mi ci sono avvicinato un po’ per sfida al sistema tradizionale, sapendo fare la classica, sapevo fare molto facilmente anche la musica elettronica. La chiave è stata quella di non aver mai smesso di studiare: anche se non mi sono mai diplomato al conservatorio, molta della mia produzione è a livelli da diploma e oltre, ho fatto anche lezioni a diplomandi o diplomati di conservatorio e non ho mai smesso di fare ricerca. Il problema del percorso classico è che per proseguirlo avrei avuto bisogno anche di una certa agiatezza economica: ne parlavo con un concertista poco tempo fa e gli chiedevo come sia possibile studiare per 8 ore al giorno se devi lavorare per guadagnare. Chi è concertista di mestiere oggi proviene dall’agio, la leggenda degli artisti “venuti dal niente” è appunto solo una leggenda: la Campanella di Franz Listz… se non studi per mesi 8 ore al giorno non la fai, puoi essere anche il più geniale e dotato del mondo, ma ti ci devi dedicare anima e corpo.
Come hai deciso di spostarti da Genova a Londra e poi in giro per il mondo? Cosa ti hanno dato queste esperienze?
Nel 1992 ho iniziato a viaggiare a Londra: ero riuscito a intercettare un produttore inglese che mi forniva uno stipendio settimanale; tramite lui ho prodotto il mio primo album, uscito nel 1998 a Los Angeles. Ero stato per la prima volta a Londra a 12 anni per studiare inglese e ci ero rimasto 2 settimane, e già a quell’età lì avevo percepito un senso di appartenenza al luogo, avevo riconosciuto una vitalità mai vista altrove. Quando poi mi sono spostato lì, viaggiando avanti e indietro dall’Italia, sono finito a vivere vicino a Windsor, a circa 40 minuti di treno a Londra. Prenotavamo lo studio di registrazione dove andavano i Prodigy, gli Oasis, i Chemical Brothers; lì c’era l’ingegnere del suono che componeva in studio la loro musica, tale Paul Morris, ed è da lui che ho imparato a tagliare l’audio in studio; da questo ambiente qui ho capito che la scena musicale inglese è unica ed è ancora oggi il motore della musica di qualità al livello internazionale.
Dopo questa esperienza, ai primi anni 2000 sono tornato a Genova e ho iniziato a fare un po’ di jazz, che in Italia non era ancora diffuso, ma in Inghilterra andava alla grande. Per imparare a fare jazz sono tornato dal mio vecchio maestro, con alcuni amici abbiamo formato una band che è andata anche in tour e addirittura Carlo Rossi, il produttore di Jovanotti, a un certo punto aveva pensato di produrci. Poi la cosa non è andata avanti perché non eravamo troppo forti con l’inglese.
Qual è stato il primo vero “salto” nella tua carriera?
Non c’è stato un vero e proprio salto netto, però quando sono andato in Francia a fare le colonne sonore per i film ho iniziato a realizzare delle cose. Ho iniziato a lavorare per la Universal e per la Warner Bros., e lì ho visto uno switch di livello: ho capito che quello poteva essere il mio vero lavoro; prima delle colonne sonore mi esibivo spesso live, in concerti eccetera, ma non sono mai riuscito a sfondare, invece lavorando per il cinema ho trovato il mio posto.
Come sei arrivato a lavorare alla colonna sonora di A Star is Born?
Quando stavo a Venice, un quartiere di Los Angeles, vivevo con 3 ragazze. Una di loro aveva un fidanzato che era Lukas Nelson, che è il figlio di Willie Nelson, leggenda americana della musica country. Io e Lukas ci siamo conosciuti in casa mia e per caso abbiamo iniziato a suonare insieme; ci siamo trovati subito benissimo e siamo rimasti amici negli anni. Qualche tempo dopo ci siamo rincontrati in un momento in cui io, nonostante avessi fatto già un paio di film, non avevo una direzione ben definita nella mia carriera; Dopo aver registrato un disco nuovo con lui, Lukas mi aveva chiesto di andare in tour lui e il suo gruppo. Dopo un mese di tour, mi propone di lavorare con lui a una colonna sonora con un film di Bradley Cooper: Lukas stava già lavorando a Shallow, e un bel pomeriggio uscendo dal cinema mi arriva un messaggio che dice «siamo in studio con Gaga e Cooper, hanno anche il piano, vieni a suonare». In un’ora di taxi ero là.
Dopo le presentazioni abbiamo iniziato subito a lavorare alla registrazione del pezzo Diggin’ My Grave. Cooper non voleva prendere attori per fare le parti musicali nel film, quindi ha deciso di prendere noi: la prima cosa che abbiamo fatto è stato registrare Shallow, la canzone presente nella famosa scena che è diventata simbolo del film. Io poi ho finito di lavorare con loro a settembre, quando ho capito che Lukas non aveva intenzione di continuare a fare le colonne sonore, ma voleva andare avanti con la vita da country man. Abbiamo preso strade diverse, lui ha continuato a fare il suo tour e io nel frattempo avevo iniziato a lavorare con Johnny Depp a un altro film
Lavorando in contesti internazionali hai percepito una differenza di approccio verso il lavoro artistico e musicale?
Assolutamente, in contesti internazionali c’è gente che ha voglia di lavorare veramente, e lo fanno a un ritmo che noi in Europa non conosciamo; in America è pieno di ponti e feste nazionali, la differenza è che loro lavorano senza perdere tempo, hanno un altro tipo di percezione del lavoro. A Star is Born aveva circa 50 milioni di budget, in Italia ho lavorato a un film che ne 12, uscito in streaming, ma la differenza nella qualità del lavoro e nell’efficienza delle persone è stata incredibile. Se lavori con le major hai una programmazione fittissima e rigorosa, invece le produzioni indipendenti, soprattutto se europee e italiane, sono sempre una grande scommessa.
Che consiglio ti senti di dare a unə ragazzə che sta intraprendendo un percorso artistico oggi?
Consiglio a tutti di partire dai social. Di frequentare le piattaforme tipo YouTube, Soundcloud, Spotify: devono partire dall’online per tirar su una fanbase che abbia un po’ di consistenza; devono avere una presenza giornaliera perché ormai per farsi vedere è necessario avere una vita online. Gli unici che riescono a sopravvivere sfuggendo a queste logiche sono i musicisti classici, perché in quel caso il pubblico risponde all’autorevolezza dei compositori classici, che sono sì suonati dai musicisti contemporanei, ma hanno già di per sé una loro rilevanza. Adesso c’è Yuja Wang, una pianista cinese che va sul palco cercando di trovare un protagonismo pubblico, è un bel personaggio e riscuote anche un certo successo. Ma il cuore di tutto alla fine risiede nel fatto che Chopin, suonato e ascoltato da tutti, era un signore un po’ rachitico e gobbo, eppure eccoci qui a godere della sua arte suonata da musicisti bravi, ma fondamentalmente sconosciuti al pubblico generalista.
Se invece vuoi fare un altro tipo di musica devi essere virtualmente importante: dai 100.000 follower in su sei forte, altrimenti fai fatica.
Uno poi si domanda se questi numeri qua sono veri. C’è sempre una zona grigia che va interpretata, bisognerà vedere in futuro questa bolla come andrà a finire. È certo che la qualità musicale resterà sempre, perché la gente talentuosa continuerà ad esistere ed essere ascoltata, invece questa industria dei numeri influenza più la possibilità di sopravvivere dei musicisti e il gusto del pubblico.
Quanto è importante in questa industria così divisa tra virtuale e reale avere anche delle competenze di relazioni umane e interpersonali per andare avanti?
È fondamentale. Un giovane in gamba oggi dovrebbe prendere la cosa dei social come un lavoro, necessaria per crearsi una vetrina dove mostrarsi per un pubblico e creare una rete online; ma nella vita è assolutamente necessario costruire una rete di rapporti reali, con persone vere, che poi possono supportarti e aiutarti in ogni occasione, altrimenti non riesci a crescere, non sai comunicare veramente con gli altri e finisci per isolarti. In questo modo non vai da nessuna parte. È necessario lavorare su vari piani distinti ed essere consapevole del peso da attribuire a ogni cosa.
Dammi almeno 3 nomi di personaggi o colleghi che ti hanno cambiato la vita.
Quincy Jones perché ha inventato il disco più venduto della storia, che è Thriller di Michael Jackson, trasformando un ragazzino in un fenomeno mondiale durato anni e ancora oggi vivissimo.
Joe Perry perché mi ha invitato a suonare con gli Aerosmith a Las Vegas; abbiamo lavorato insieme a molti progetti e ho scoperto che ha un’umanità pazzesca, cosa che gli ha permesso negli anni di diventare il monumento che è.
Johnny Depp perché mi ha dato una forte spinta emotiva in un momento in cui ne avevo bisogno; quando lavoravamo insieme ci siamo scritti dei messaggi che mi sono rimasti impressi: ancora oggi vado a rileggermeli perché riescono a restituirmi fiducia in me stesso quando mi sembra di perdere la via.
Quali spinte sono fondamentali oggi per te per mantenere la tua creatività e motivazione?
Quello che c’è in giro, i film, le serie, la musica nuova, le persone.
Bisogna tenere gli occhi aperti e rivolti verso il mondo, anche recuperando cose vecchie e guardandole da nuove prospettive; per esempio ieri ho rivisto il primo Ghostbusters, che è degli anni ’80, ma rivendendolo dopo tanti anni mi ha dato cose nuove, diverse, che non avevo mai intercettato prima. La creatività per me è sempre accesa perché la nutro con la vita che vivo ogni giorno.